Abbiamo fatto un gioco lo scorso anno. Lo hai visto e maneggiato, una figura multidimensionale senza istruzioni per l'uso. Un solido piatto, una pura e impossibile forma che discuteva per immagini su come si faccia a fare una cosa (UN)DIY (do it yourself, autoprodotta). Ci vuole per cominciare un capitale umano, la mano che disegna e disegna e disegna. Ci vuole lucidità e libidine, la lussuria di un piacere carnale del fare le cose e un cervello febbrile e determinato. Ci vuole un ago e filo per ricucire gli strappi di un cuore crackato. Ci vuole un gruppo in cui distruggere il proprio narcisismo identitario. Questo è esattamente sia il motore che il punto debole. Diventa facilmente la scatola intorno alla quale stringe il Capitale le sue gabbie dorate. E se scatta il meccanismo poi muoverti dentro è più difficile. Ci vuole la capacità di disfare il progetto e abbandonarsi al processo. Per rivoltare DIY in UN-DIY. Il fluire di eventi persone e visioni che ci attraversano e con cui si forma il mondo e le storie che vogliamo raccontare. E ci vuole uno spazio, non uno spazio ma una Pratica dello Spazio, una fatica che ricostruisce, per renderlo una TAZ, una zona temporaneamente autonoma.
È stato straordinario poter lavorare di nascosto sotto gli occhi di tutti. Anno dopo anno crescere e diventare invisibili. Da questo nascondiglio le orde dei produttori che hanno attraversato e costruito Crack! hanno visto il futuro molto chiaramente. Sanno che non esiste narrazione se non all'interno di un dato sistema di produzione. Se produci in un modo, quel modo rende il tuo racconto una certa cosa. Per un editore il problema consiste nel costruire un nuovo oggetto libro o rivista che viaggia merce tra le merci, ma per quanto possa mutare il suo contenuto, la forma che assume è sempre la stessa. Per ognuno di noi che lavora processualmente si tratta di costruire insieme un racconto e una forma che lo contenga (e non è nemmeno detto che questo racconto sia di parole e una storia ce l'abbia). Poi si tratta di portare questa cosa di mano in mano a chi la sappia leggere tra le trame della carta, della stoffa o di quel che è. È una storia d'amore che finisce in una programmata clamorosa rovina costruita pazientemente e perseguita con lucidità. Chi non riesce a vedere questa cosa difficilmente riesce a capire cosa succede nei sotterranei del Forteprenestino nei giorni caotici di Crack!, difficilmente riesce a trovare una strada rassicurante che ripercorra terreni noti nella suburra del nostro festival.
Le forme del Capitale prendono possesso di tutto quello che possono trasformare. E devono simulare quello che non possono produrre. Simulano spazi reti e produzioni culturali. Quello che da questa parte del mondo sono Taz, movimenti e autoproduzioni, in quella parte diventa centri commerciali, piattaforme di controllo e prodotti. Simulano città artisti e vite umane. L'arte di là è una merce e di qua è una vita, come diceva Hakim Bey. È necessario perché la macchina si muova, una puntuale messa a reddito del processo creativo, dell'intelligenza collettiva. Ci chiedono di farne parte. Di spostarci dentro il luna park. Questa dislocazione in scenari svuotati e simulati è un processo di gentrificazione che si estende dalla città fisica a quella delle relazioni fino ad arrivare a quella dei racconti disegnati. Le cose sono collegate fortemente: la città è una pratica narrativa, le case sono le tavole e le stanze le vignette di una storia che stiamo disegnando. Modificare uno spazio è modificare un racconto. Privarci di uno spazio è privarci di un racconto. È una cosa seria. Tanto seria che coinvolge anche noi, marginali, solitari amanuensi. Che in silenzio continuiamo i nostri disegni e i nostri “preferisco di no”. Non perché ci piaccia restare fuori, ma per trovare invece lo spazio extralegale per le nostre Crackland. Anche se dovessero durare una sola notte.
Abbiamo invece fatto un'altra cosa. Abbiamo scelto un'altra via di confronto con lo spazio delle merci. Ci siamo messi al lavoro con un grande editore, di quelli che fanno la Narrativa: otto storie, autori che hanno formato questo network fin dall'inizio o entrando in gioco più avanti e che sono cresciuti nel mondo dell'autoproduzione e a Crack!. A questo progetto è stata imposta la licenza Creative Commons, una di quelle che abbiamo usato per rilasciare le nostre autoproduzioni. Una forma di copyleft. L'idea è che se lavoriamo insieme lavoriamo anche per distruggere l'Autore e i suoi Diritti, lasciar scorrere la conoscenza come linfa nei nostri alberi. Noi non potevamo nemmeno immaginarlo un libro con le forme di controllo intellettuale del copyright. E così abbiamo fatto una raccolta, La Rabbia. Pronta a settembre ad affrontare la grande distribuzione, portando il nostro modo di essere là fuori. Sono storie e storie arrabbiate. La rabbia di chi sa che la partita non può nemmeno essere giocata, non che è persa. La rabbia di uno che sta bloccato dentro un ascensore per un fine settimana che dura da una vita. La rabbia del tempo che non si risolve mai. La rabbia di non riuscire ad incontrare il reale ma solo di scontrarcisi. La rabbia di non riuscire a trasformarla la rabbia. Questo libro è un'avventura, con l'idea che quando il tuo network ti sostiene ti puoi permettere passeggiate nello spazio profondo e che questo possa contribuire alla nostra galassia Crackland.
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We crafted a toy, last time. You beheld it and mucked around that, a multidimensional figure with no how-tos. A solid disc, mere and unworkable form to embody the gist of (Un)DIY (do it yourself). First and foremost, the human capital: dish up a hand, tirelessly drawing. Pick up a sheer attitude, and the bang, and the perv to play. And a hectic and targeted mind. More, a ‘needle and thread’ to stitch up a wide crack-ed heart. A bunch to nuke your self-centered chest-thumping attitude in. That’s, on the dot, the ‘rock and raw’ the Capital would pack up in gold. Once the gear is popped up, no way you can jam it. You’d be able to undo the undertaking and get lost in the flow. To overturn DIY into UN-DIY. Events visions people you’ll go through while casting the world is the plot we’ll tell. A space is essential, thus not a space, but praxis on it, a generative struggle to underlay a TAZ, a Temp Autonomous Zone.
Has been stellar to keep working under wraps but in the very public eye. Growing yearly as old as invisible. From this hideout, the horde of knack-some makers gone through and carving Crack! out have clearly seen the things to come. They all know there can be no story but in a given mode of production. The way it’s produced is the way the tale embodies. A grand publisher can be affected by raising up a brand new stuff - whatever book or paper sort - surfing ware among all goods: change the fill-in, the feature doesn’t ever. To us all - minding the way - the point is casting both core and signifier (perhaps, this plot can’t be word kind, neither endowed with a storyline). Then it comes to hand this piece around to those able to unfold it, whatever paper or fabric texture can be. It’s a love affair collapsing in a preset scenario rooted in patience and brightly targeted. If you can’t see that, hardly you’ll catch what’s bubbling in the bowels of Forte Prenestino during the Crack!-ed days, hardly you’ll find a way-home in the hill-reputed grounds of our festival.
Capital leeches everything can digest. And fakes what can’t crank out, forging orbits networks issues. Entre nous is TAZ, grass-root movement and independence; on the other side...help yourselves with malls, watchdogs and outputs. Capital cheats lives and hives; to Hakim Bey, our art is bloods while its one is goods. The machine has to be fueled, the knowledge subsumed, the general intellect cashed on. “Come inside” - they say - “come join us in the leisure park!” This move in live-less mokups grounds is nothing but gentrifying the ‘bricks and mortar’ city and then the relational city and then the paper city. There’s an underneath syntax holding - next to and facing each other - this things together: city-life is a narrative practice, houses are frames, rooms are strips of a story we are visually transferring. The habitat, the language: both a ‘question of space’. Strip us of a space, no tale there can be anymore. It’s a heavy matter. As heavy as it crushes into us, lone copyists silently living on draws and I prefer not tos. That’s not about being off, anyway; it’s about settling our Cracklands out of the statement. Even eventually: no encores, a ‘night-only’ piece.
Out from the ware-sphere, we acted otherwise: we got involved with a notable fiction-publishing house. Yes, you’ve got it: eight tales, by who had drawn together the networks since the very beginning or in the course of, growing up in the broth of independent publishing. We thrust the Creative Commons license upon it, the same as we cut our own issues. A copyleft species. Since we are in this together, the shared target should be dismantling the sense of ‘author’ and ‘copyright’, setting the collective wisdom free to flow as blood in the veins. We couldn’t ever figure out else way. So we made up La Rabbia (Anger), to be delivered on September facing the mainstream diffusion, disseminating our ‘way to’ out there. The stuff is truly pissed off stories, as well as once you realize the game is not just over but you’re not allowed to play. As well as feeling as locked in a lift in a lifetime lasting weekend. As well as being trapped in a screwed-in time gap. As well as you can’t run into life, at least you can clash with it. As well as you can’t work it up in a pure distilled rage. This book is a gamble, as a mission in a deep space spot since you can rely on your (under)ground control while mapping the Crackland galaxy.